Migra - osservatorio sulla discriminazione degli immigrati nel lavoro

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Strage di Erba: e se... ?

  • 06/02/2007
  • Martina Secchi

E se nella strage di Erba fosse stata sgozzata una famiglia italiana anziché una famiglia italo- tunisina? E se fosse stata la Somalia a bombardare gli Stati Uniti provocando decine di morti innocenti?

Il “principio di reciprocità”, è spesso inneggiato dalla retorica anti-islamista improvvisamente convertita e quindi preoccupata di non riuscire a farsi il “segno della croce” all’ombra dei minareti deve valere in tutte le “relazioni internazionali ed interculturali”. Non solo, quindi, nella sfera religiosa ma anche in quella politica, sociale ed economica. Soffermiamoci su quest’u ltima. Sono oltre 3 milioni gli immigrati presenti in Italia e oltre 30.000 nel solo Trentino. La massiccia presenza, in Italia come nel resto d’Europa, ha portato negli ultimi decenni ad un considerevole aumento di ricchezza e produttività in vari settori dell’economia oltre ad una natalità che mantiene in vita le nostre scuole, i nostri paesi di montagna e, in definitiva, la nostra “convivenza civile”.

Nonostante ciò, la tutela della vita e dei bisogni delle persone immigrate è talvolta considerata di minor valore rispetto all’ "uso" economico delle stesse. Insomma, sembra interessare più la forza lavoro che non la persona che la presta. Il diritto panumano della Dichiarazione universale dei Diritti Umani, la Convenzione contro il Razzismo del 1966, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come il testo unico del 1998 che sancisce i diritti fondamentali di tutti i migranti, anche se privi di permesso di soggiorno, sembrano ancora lontani dell’essere considerati come diritti fondamentali. L’art. 43 del testo unico sull’immigrazione qualifica come discriminatori i comportamenti che, direttamente o indirettamente, operano una distinzione, un’esclusione, una restrizione o una preferenza per motivi di razza, colore, nazionalità, etnia, religione e che abbiano l’intento o l’e ffetto di distruggere o compromettere il riconoscimento o l’esercizio, in condizione di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

La forza lavoro immigrata va, quindi, integrata socialmente. Per farlo serve – in primis – regolarizzare i flussi d’entrata perché a differenza delle merci e dei denari le persone necessitano di casa, scuola, sanità e del rispetto preteso dalla “reciprocità”. La clandestinità conviene forse a certuni che offrono lavoro nero ma non ad una società civile. Chi vive in una situazione precaria di non riconoscimento, verrà ad alimentare un mercato parallelo che viene a favorire lo sfruttamento. Lo stesso legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro può incentivare, alla scadenza di quest’ultimo, il diffondersi del caporalato. Questa modalità illegale d’impiego si avvale della crescente disponibilità di lavoratori immigrati – domanda – disposti ad accettare paghe irrisorie – offerta – pur di sopravvivere nella condizione d’ irregolarità. Più che in agricoltura, come rilevato dai giornali locali, casi di caporalato sono presenti in Trentino anche nell’edilizia, nell’artigianato e nel settore alberghiero.

Come ha sottolineato Antonio Rapanà a Cles il 18 dicembre scorso durante l’incontro pubblico dal titolo: caporalato in Trentino? lo scopo delle politiche per l’immigrazione non è solo quello di bloccare i flussi perché “le onde del mare non si fermano. Si deve imparare a governarle”. Bisogna quindi garantire una regolarità nei flussi che rispetti la reale domanda d’impiego e allo stesso tempo un maggiore coinvolgimento a livello territoriale sia degli enti pubblici che delle forze sociali per definire reali politiche d’ interazione e d’integrazione come auspicato anche dall’ ASGI - Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione in relazione alla modifica della Bossi Fini. A tal fine può essere utile ma non dogmatico ascoltare e coinvolgere le controparti del contratto di lavoro e quindi le associazioni d’imprenditori e le associazioni d’immigrati spesso incapaci di dialogare tra loro.

La CGIL, alla giornata di studi organizzata dal Master sull’immigrazione di Venezia lo scorso 15 dicembre, ha denunciato le pratiche introdotte dalla legge Bossi-Fini. Quest’ultima da un lato discrimina i migranti non considerandoli come cittadini ma esclusivamente come forza lavoro da mantenere in condizione d’ inferiorità giuridica e sociale e dall’altro spende molto più denaro nella gestione dei Centri di permanenza temporanei rispetto a quanti non ne investano per le politiche di integrazione (112 milioni di euro contro 50 milioni). Ciò avviene in collisione con il diritto panumano sovracitato. A livello nazionale urge un segnale politico di dignità, discontinuità e di novità per applicare appieno il “principio di reciprocità” di cui tanto si va parlando.