Migra - osservatorio sulla discriminazione degli immigrati nel lavoro

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Risorse. Un viaggio in Trentino tra immigrazione, lavoro e discriminazione

  • 20/12/2007
  • Alberto Conci

È stato presentato il 18 dicembre scorso, in un’affollata conferenza nella sala della Cooperazione di Trento, il rapporto curato da MIGRA, l’Osservatorio sulla discriminazione degli immigrati nel lavoro, che ha preso in esame la condizione dei lavoratori stranieri in Trentino. Frutto di una lunga campagna di sensibilizzazione e di ricerca, il voluminoso rapporto scatta una fotografia estremamente interessante su un problema poco studiato e complessivamente sommerso. L’O sservatorio, che ha lavorato in collaborazione con le istituzioni politiche e con le organizzazioni sindacali, è frutto della collaborazione fra ATOS, Fondazione opera campana dei caduti e Fondazione Fontana, ed è nato dalla consapevolezza che l'immigrazione costituisce oggi, anche per il Trentino, un fenomeno irreversibile sia per il sistema economico locale che per la società. Nello scorso anno MIGRA ha organizzato alcuni incontri sul territorio sul problema del lavoro nero e ha avviato una campagna pubblicitaria con grandi manifesti volti a richiamare l’attenzione sui diritti dei lavoratori immigrati. I dati emersi dal rapporto meritano grande attenzione e dovrebbero stimolare una seria riflessione sul problema del lavoro. Il Trentino, con un 6,6% di popolazione straniera regolare ha vissuto i flussi migratori in ritardo rispetto ad altre province e regioni italiane, e tuttavia la velocità dei flussi, causata anche dal tipo di offerta di lavoro (si pensi ai lavori stagionali nell’agricoltura o al turismo), ha costretto la società trentina e il mondo del lavoro ad adattarsi ad un cambiamento piuttosto rapido. Ciò non significa che sia fondato l’allarmismo cavalcato da qualche forza politica, ed appare abbastanza lontana dalla realtà l’immagine catastrofica dell’“invasione”. Al contrario, l’e levata propensione alla stanzialità della popolazione immigrata in Trentino, dovuta ad un tasso di occupazione più alto rispetto ad altre zone del Paese, ha per molti aspetti ridotto i problemi che si registrano in zone nelle quali l’inserimento lavorativo è più difficile. Non è un caso che la costante crescita dei permessi di soggiorno negli ultimi quindici anni (5.445 nel 1992; 25.239 nel 2005) si sia accompagnata ad un altrettanto costante aumento percentuale dei permessi rilasciati per il ricongiungimento familiare: erano l’11% nel 1992 per diventare quasi il 34% nel 2005.

A fronte di tale presenza, la domanda di fondo è: esistono, e come misurare, atteggiamenti discriminatori nei confronti della popolazione immigrata? Giuseppe Sciortino, nella prefazione al volume, sostiene che “i dati raccolti sembrano negare l’esistenza in Trentino di una struttura di discriminazione sistematica basata su pregiudizi etnici o razziali. Allo stesso tempo, tuttavia, gli stessi dati fanno suonare diversi campanelli d’allarme per il futuro rispetto alle penalizzazioni cui potrebbe andare incontro nel mercato del lavoro locale una parte della manodopera di importazione”.

Il concetto di discriminazione è molto complesso, poiché racchiude un ampio spettro di comportamenti e di atteggiamenti non sempre facili da identificare. Per questa ragione, la ricerca ha inteso monitorare prima di tutto i comportamenti concreti (ad esempio la situazione retributiva, gli orari di lavoro, la richiesta di straordinario, la prospettiva di carriera, il riconoscimento dei titoli di studio) che generano di fatto una condizione di reale discriminazione in ambito lavorativo.

L’inserimento nel lavoro costituisce il primo livello in cui si possono misurare comportamenti discriminatori. Se l’appartenenza religiosa non sembra incidere in maniera significativa nella fase di ingresso, più forte è l’incidenza della differenza di genere (il 59% delle donne immigrate denuncia difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro contro il 47% degli uomini) e della nazionalità (il 66% dei Pakistani trova difficoltà). La percezione di questa situazione è ricondotta dagli immigrati proprio al fatto di essere straniero. La cosiddetta “preferenza etnica”, cioè la diversità di trattamento sulla base del Paese di provenienza, non è completamente assente, anche se essa non sembra essere un fattore così diffuso da creare un “conflitto” fra le diverse nazionalità. La percezione che comunque esista una diversità di trattamento fra colleghi italiani e stranieri viene marcata (e nelle interviste aperte viene anche rinforzata con racconti molto circostanziati!) dal 26% degli intervistati. E la convinzione di tale diversità di trattamento è ancora più alta (raggiungendo il 70% fra gli ucraini e l’84% fra i moldavi). Il dato non può essere trascurato. Il fatto che un lavoratore su quattro riconosca l’esistenza concreta di atteggiamenti discriminatori di un certo rilievo nei confronti degli stranieri, rappresenta sicuramente un dato rilevante. Accanto ad atteggiamenti di sostanziale correttezza, o ad atteggiamenti di comprensione per la situazione dei lavoratori immigrati (l’80% ha potuto usufruire di orari flessibili nel momento in cui ha espresso richieste motivate da ragioni religiose o burocratiche), permangono insomma comportamenti di sfruttamento dei lavoratori immigrati. Tali comportamenti, ricondotti spesso dagli stessi immigrati alla mancata conoscenza della lingua o dei propri diritti, giungono fino a marcate differenze sul piano retributivo, come denuncia il 19% degli intervistati. Il mancato rispetto del contratto viene denunciato in particolare dagli impiegati nei mestieri artigianali (36%), nell’industria (32%) e nel lavoro domestico (32%). Sul piano dell’appartenenza nazionale, gli abitanti del Nord Africa denunciano maggiormente tali scorrettezze (oltre il 37%), contro il 15% degli albanesi.

Un ultimo dato può essere significativo: l’opinione che esista un atteggiamento discriminatorio pregiudiziale è molto alto in alcuni settori (lavoro domestico e assistenti domiciliari) a prevalente presenza femminile, dove supera l’80%. A tutto questo va aggiunto un tipo di discriminazione più difficile da misurare, ma non per questo meno presente: quello dell’assunzione ad un livello a retribuzione più bassa rispetto alle reali mansioni richieste o quello della richiesta di prestazioni aggiuntive non riconosciute o retribuite. A fronte di questa situazione, la difficoltà maggiore che trovano i lavoratori stranieri è la denuncia di tali condizioni di discriminazione, che appaiono molto più marcate nel caso di lavoro nero. Le motivazioni sono diverse (il tentativo del compromesso, la sfiducia, la paura), ma conducono sempre allo stesso risultato: l’accettazione della situazione discriminatoria almeno fino al momento nel quale è possibile intravedere una via d’uscita sicura. Un discorso a sé meriterebbe il problema del lavoro nero, ovviamente molto più difficile da monitorare. Tuttavia parte delle interviste a domanda aperta hanno permesso ai ricercatori di mettere in luce come a quel livello sia molto più marcato, evidentemente, il trattamento discriminatorio: “È chiaro – scrive nel volume Tommaso Pasquini – che in questi casi le forme di discriminazione aumentano e sono praticamente endemiche: un immigrato senza documenti o senza contratto di lavoro regolare viene pagato meno, lavora molte più ore, non può far valere i propri diritti presso i sindacati né denunciare soprusi e sfruttamenti vari”. Il quadro che esce dalla ricerca è fatto di luci e di ombre. La situazione dei lavoratori regolari risulta migliore rispetto ad altre situazioni, ci troviamo di fronte a una certa stabilizzazione del lavoro e il lavoro nero, che rappresenta una terribile piaga sociale, è probabilmente più contenuto rispetto ad altre aree del Paese. Tuttavia, la rilevazione di comportamenti discriminatori e la permanenza di settori dell’impiego nei quali il ricorso al lavoro nero è ancora alto sono un “campanello d’allarme”, come dicono i ricercatori, che non dovrebbe essere sottovalutato. Né sul piano sociale, né su quello politico. Perché il lavoro è probabilmente il mezzo più efficace per costruire una società più sicura e più giusta.

Alberto Conci, Rivista Cooperazione e conscumatori